Nel Teatro dell’Opera del Casinò di Sanremo Lucio Villari ha presentato il libro.” Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento.” L’autore è stato introdotto da Gianfranco Boccalatte e Aldo A. Mola. La presentazione di Ito Ruscigni. (foto)
C' è un filo continuo che tiene insieme gli innumerevoli episodi raccontati nel volume di Lucio Villari, Bella e perduta, l' Italia del Risorgimento . Per cominciare, l' espressione che accompagna, nel titolo, l' evocazione della nostra epopea in quanto nazione è tratta dal Nabucco di Giuseppe Verdi e rientra in quella «colonna sonora» - non saprei come altro chiamarla - che adorna il testo del nostro storico, rappresentando il sostrato umano e culturale dei fatti e dei personaggi che li interpretano. Di rado un libro di storia viene «impaginato» dal suo autore con l' intenzione di lasciare uno spazio così ampio e centrale non soltanto a documenti e discorsi ufficiali ma a lettere più o meno confidenziali dei protagonisti, diari, poesie militanti, romanzi e romanze, arie e mottetti d' opera, dipinti famosi, riflessioni e confessioni. E' una rete di richiami testuali che qui contribuisce alla godibilità dell' opera senza per nulla attenuarne l' autorevolezza. Offrendo anzi un supporto documentale alla sua carica polemica, che altrimenti rischierebbe di apparire predicatoria. Che polemiche siano le intenzioni di questa Bella e perduta non è il caso di dubitare. L' autore si oppone alla tendenza, oggi quasi generalizzata, a relegare gli episodi e i sentimenti di cui qui si parla nei «depositi antiquari della nostra storia nazionale», o addirittura a sminuirne - per fatalismo contagioso o, più spesso, per deliberata demagogia - l' importanza nel quadro dell' Europa moderna. La coltre di scetticismo che rimpicciolisce e sconfessa il Risorgimento, relegando l' Unità d' Italia fra le imprese impossibili e perciò incompiute, trova nell' autore di queste pagine un contestatore severo. E il controcanto da lui intonato rispetto a una simile denigrazione aiuta non solo a riscoprire nell' «inesorabile procedere dell' idea d' Italia» ragioni non effimere e nobili propositi, ma anche a rintracciare i più solidi motivi del nostro stare insieme in quanto cittadini. Fin dall' esordio del libro, la favola dell' «Italia romantica e ribelle», pare all' autore adatta ad essere recitata dalla voce d' un giovane «allegro e lievemente incantato». «Gioventù» è la parola che risuona di riga in riga, via via che il racconto si snoda, senza alcun sussiego accademico, dallo scadere del Settecento alla breccia di Porta Pia. Aveva ventisette anni Napoleone Bonaparte quando, invadendo le nostre contrade nel 1796, prese ad introdurvi, quasi fatalmente, «formule e stili di comportamento politico che possiamo definire liberali»; nei quali gli italiani, pur attraverso speranze spesso sfociate in disinganni, saranno «presenti e protagonisti». La lunga teoria di moti e sussulti libertari, mazziniani o carbonari, sarà segnata dalla presenza in prima linea di «ragazzi patrioti», Gavroches delle barricate. Ma anche coloro che diverranno gli attori proverbiali della saga nazionale affideranno la loro fama all' eroismo magari sventato ma esemplare degli anni verdi: ne contava ventidue Goffredo Mameli quando trovò la morte combattendo per la Repubblica romana, trentatrè Ciro Menotti nel cadere fucilato a Modena, trentaquattro Attilio e venticinque Emilio Bandiera giustiziati nel loro sogno incompiuto di «sollevare a libertà» la Calabria. «E' giovene, è alla mano, è bono è bello... », così Giuseppe Gioacchino Belli decantava papa Pio IX quando s' era appena assiso sul trono di san Pietro e pochi potevano aspettarsi che sarebbe passato alla storia, fra l' altro, come firmatario dell' arcigno Sillabo. Se non sempre giovani, spesso generosamente temerari senza revisioni o pentimenti, erano i volontari, lievito delle truppe italiane in azione. «Per i nostri militi», scriveva incantato Garibaldi a Mazzini in una pausa d' armi della Repubblica romana, «la guerra, le tempeste di palle, bombe ecc., sono un gioco». E terminava con un invito all' attivismo - «Fate, per Dio!» - che sembra una risposta dal fronte a certi ammirati rilievi della stampa britannica a proposito della «caparbietà» del Risorgimento, ossia della sua resistenza nell' andare avanti ad onta di rovesci e batoste. Quando ci si trovava in serie difficoltà, nel lessico dei Mille spuntava, c' informa Villari, un' espressione a suo modo euforica: l' «ilarità del pericolo». A saperne opportunamente ripercorrere la trama, il Risorgimento è un film dirompente, privo di stacchi d' azione e scene di riposo. C' è sempre un' occasione di cui far tesoro: e «scocca all' improvviso - sono parole di Cavour, moderato e pensoso calcolatore - l' ora dalla quale dipendono i fati degli imperi, le sorti dei popoli». E accade di scorgerlo, il Conte, mentre esclama - in una pagina datata 23 marzo 1859 - è la vigilia del secondo conflitto d' indipendenza e la colonna sonora di Villari è diventata un concerto- «La guerra! La guerra immediata e senza indugi!». Perché le sequenze incalzano, ormai, e «non è possibile l' indietreggiare». Non era il caso di stupirsi, perciò, che Auguste de La Rive commentasse: «Per Cavour la guerra fu il trionfo. E il riposo». Ogni efficace opera di storia è intessuta di citazioni testuali. Ma quando esse disegnano quasi un libro nel libro, al lettore sembra di somatizzarne il senso (il verbo «somatizzare» è caro all' autore), assurgendo in qualche modo a comprimario di ciò che si sceneggia. E' questo il caso. Al conte di Cavour tocca di farsi largo, con il suo formato politico gigante, in una schiera felicemente irta di «dichiaratori»: Dante, Ariosto, Tasso, Alfieri, Leopardi, Foscolo, Manzoni, Gioberti, Carducci, De Sanctis e D' Azeglio (quest' ultimo nella sua doppia anima di governante e di scrittore), Verdi, Rossini, Bellini, Nietzsche, Tocqueville, Mommsen, Tommaseo, Giuseppe Cesare Abba e Ippolito Nievo. Ma ci riesce alla perfezione, il conte, anche se costretto a difendersi dalla concorrenza, ovviamente agguerrita, di Garibaldi e Mazzini. Nell' agone dei «virgolettati», c' è un tema nel quale molti suoi ipotetici rivali faticherebbero, se ci si provassero, a tenergli testa. E' il rapporto fra dinamismo economico e libertà politica. I suoi interventi in materia colpiscono per semplicità e lungimiranza. Lo si sorprende nell' estate del 1850 a dire la sua per iscritto sui primi annunzi dell' Esposizione universale di Londra, promossa o invogliata dalla regina Vittoria. «Lo spettacolo di tutti i prodotti dell' umana industria messi a confronto», egli afferma, «non può che far sentire sempre di più il bisogno del governo civile funzionante secondo i bisogni economici univoci e non contraddittori di ogni contrada e di ogni lingua, e rafforzare i sentimenti di nazionalità in Europa». Una chiarezza simile la raggiunge, su temi analoghi, solo Carlo Cattaneo, ma anche nel suo caso la consistenza teoricopratica delle tesi sostenute confina con il genio. Identica, in entrambi, è l' invocazione all' Europa come madre di progresso e civiltà. Pure questo si chiama Risorgimento. NELLO AJELLO
Lucio Villari insegna Storia contemporanea nell'Università di Roma Tre. È autore di volumi e saggi sulla storia culturale, politica ed economica dell'Europa e degli Stati Uniti dal Settecento al Novecento. Collabora alle pagine culturali e a iniziative editoriali di "Repubblica". Tra le sue pubblicazioni più recenti: Romanticismo e tempo dell'industria, Niccolò Machiavelli, L'insonnia del Novecento, Le avventure di un capitano d'industria.
Il 16 Novembre Valerio Massimo Manfredi illustrerà il volume:” Archanes e altri racconti”.
C' è un filo continuo che tiene insieme gli innumerevoli episodi raccontati nel volume di Lucio Villari, Bella e perduta, l' Italia del Risorgimento . Per cominciare, l' espressione che accompagna, nel titolo, l' evocazione della nostra epopea in quanto nazione è tratta dal Nabucco di Giuseppe Verdi e rientra in quella «colonna sonora» - non saprei come altro chiamarla - che adorna il testo del nostro storico, rappresentando il sostrato umano e culturale dei fatti e dei personaggi che li interpretano. Di rado un libro di storia viene «impaginato» dal suo autore con l' intenzione di lasciare uno spazio così ampio e centrale non soltanto a documenti e discorsi ufficiali ma a lettere più o meno confidenziali dei protagonisti, diari, poesie militanti, romanzi e romanze, arie e mottetti d' opera, dipinti famosi, riflessioni e confessioni. E' una rete di richiami testuali che qui contribuisce alla godibilità dell' opera senza per nulla attenuarne l' autorevolezza. Offrendo anzi un supporto documentale alla sua carica polemica, che altrimenti rischierebbe di apparire predicatoria. Che polemiche siano le intenzioni di questa Bella e perduta non è il caso di dubitare. L' autore si oppone alla tendenza, oggi quasi generalizzata, a relegare gli episodi e i sentimenti di cui qui si parla nei «depositi antiquari della nostra storia nazionale», o addirittura a sminuirne - per fatalismo contagioso o, più spesso, per deliberata demagogia - l' importanza nel quadro dell' Europa moderna. La coltre di scetticismo che rimpicciolisce e sconfessa il Risorgimento, relegando l' Unità d' Italia fra le imprese impossibili e perciò incompiute, trova nell' autore di queste pagine un contestatore severo. E il controcanto da lui intonato rispetto a una simile denigrazione aiuta non solo a riscoprire nell' «inesorabile procedere dell' idea d' Italia» ragioni non effimere e nobili propositi, ma anche a rintracciare i più solidi motivi del nostro stare insieme in quanto cittadini. Fin dall' esordio del libro, la favola dell' «Italia romantica e ribelle», pare all' autore adatta ad essere recitata dalla voce d' un giovane «allegro e lievemente incantato». «Gioventù» è la parola che risuona di riga in riga, via via che il racconto si snoda, senza alcun sussiego accademico, dallo scadere del Settecento alla breccia di Porta Pia. Aveva ventisette anni Napoleone Bonaparte quando, invadendo le nostre contrade nel 1796, prese ad introdurvi, quasi fatalmente, «formule e stili di comportamento politico che possiamo definire liberali»; nei quali gli italiani, pur attraverso speranze spesso sfociate in disinganni, saranno «presenti e protagonisti». La lunga teoria di moti e sussulti libertari, mazziniani o carbonari, sarà segnata dalla presenza in prima linea di «ragazzi patrioti», Gavroches delle barricate. Ma anche coloro che diverranno gli attori proverbiali della saga nazionale affideranno la loro fama all' eroismo magari sventato ma esemplare degli anni verdi: ne contava ventidue Goffredo Mameli quando trovò la morte combattendo per la Repubblica romana, trentatrè Ciro Menotti nel cadere fucilato a Modena, trentaquattro Attilio e venticinque Emilio Bandiera giustiziati nel loro sogno incompiuto di «sollevare a libertà» la Calabria. «E' giovene, è alla mano, è bono è bello... », così Giuseppe Gioacchino Belli decantava papa Pio IX quando s' era appena assiso sul trono di san Pietro e pochi potevano aspettarsi che sarebbe passato alla storia, fra l' altro, come firmatario dell' arcigno Sillabo. Se non sempre giovani, spesso generosamente temerari senza revisioni o pentimenti, erano i volontari, lievito delle truppe italiane in azione. «Per i nostri militi», scriveva incantato Garibaldi a Mazzini in una pausa d' armi della Repubblica romana, «la guerra, le tempeste di palle, bombe ecc., sono un gioco». E terminava con un invito all' attivismo - «Fate, per Dio!» - che sembra una risposta dal fronte a certi ammirati rilievi della stampa britannica a proposito della «caparbietà» del Risorgimento, ossia della sua resistenza nell' andare avanti ad onta di rovesci e batoste. Quando ci si trovava in serie difficoltà, nel lessico dei Mille spuntava, c' informa Villari, un' espressione a suo modo euforica: l' «ilarità del pericolo». A saperne opportunamente ripercorrere la trama, il Risorgimento è un film dirompente, privo di stacchi d' azione e scene di riposo. C' è sempre un' occasione di cui far tesoro: e «scocca all' improvviso - sono parole di Cavour, moderato e pensoso calcolatore - l' ora dalla quale dipendono i fati degli imperi, le sorti dei popoli». E accade di scorgerlo, il Conte, mentre esclama - in una pagina datata 23 marzo 1859 - è la vigilia del secondo conflitto d' indipendenza e la colonna sonora di Villari è diventata un concerto- «La guerra! La guerra immediata e senza indugi!». Perché le sequenze incalzano, ormai, e «non è possibile l' indietreggiare». Non era il caso di stupirsi, perciò, che Auguste de La Rive commentasse: «Per Cavour la guerra fu il trionfo. E il riposo». Ogni efficace opera di storia è intessuta di citazioni testuali. Ma quando esse disegnano quasi un libro nel libro, al lettore sembra di somatizzarne il senso (il verbo «somatizzare» è caro all' autore), assurgendo in qualche modo a comprimario di ciò che si sceneggia. E' questo il caso. Al conte di Cavour tocca di farsi largo, con il suo formato politico gigante, in una schiera felicemente irta di «dichiaratori»: Dante, Ariosto, Tasso, Alfieri, Leopardi, Foscolo, Manzoni, Gioberti, Carducci, De Sanctis e D' Azeglio (quest' ultimo nella sua doppia anima di governante e di scrittore), Verdi, Rossini, Bellini, Nietzsche, Tocqueville, Mommsen, Tommaseo, Giuseppe Cesare Abba e Ippolito Nievo. Ma ci riesce alla perfezione, il conte, anche se costretto a difendersi dalla concorrenza, ovviamente agguerrita, di Garibaldi e Mazzini. Nell' agone dei «virgolettati», c' è un tema nel quale molti suoi ipotetici rivali faticherebbero, se ci si provassero, a tenergli testa. E' il rapporto fra dinamismo economico e libertà politica. I suoi interventi in materia colpiscono per semplicità e lungimiranza. Lo si sorprende nell' estate del 1850 a dire la sua per iscritto sui primi annunzi dell' Esposizione universale di Londra, promossa o invogliata dalla regina Vittoria. «Lo spettacolo di tutti i prodotti dell' umana industria messi a confronto», egli afferma, «non può che far sentire sempre di più il bisogno del governo civile funzionante secondo i bisogni economici univoci e non contraddittori di ogni contrada e di ogni lingua, e rafforzare i sentimenti di nazionalità in Europa». Una chiarezza simile la raggiunge, su temi analoghi, solo Carlo Cattaneo, ma anche nel suo caso la consistenza teoricopratica delle tesi sostenute confina con il genio. Identica, in entrambi, è l' invocazione all' Europa come madre di progresso e civiltà. Pure questo si chiama Risorgimento. NELLO AJELLO
Lucio Villari insegna Storia contemporanea nell'Università di Roma Tre. È autore di volumi e saggi sulla storia culturale, politica ed economica dell'Europa e degli Stati Uniti dal Settecento al Novecento. Collabora alle pagine culturali e a iniziative editoriali di "Repubblica". Tra le sue pubblicazioni più recenti: Romanticismo e tempo dell'industria, Niccolò Machiavelli, L'insonnia del Novecento, Le avventure di un capitano d'industria.
Il 16 Novembre Valerio Massimo Manfredi illustrerà il volume:” Archanes e altri racconti”.
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