lunedì, febbraio 14, 2011

150° anniversario dell’Unità d’Italia di Francesco Mulè


Nel periodo ottobre/novembre 1993, il quotidiano “Il Giornale”, diretto allora da Indro Montanelli, propose ai lettori 24 inserti redazionali sulla “Storia del Regno d’Italia” (1861-1946); dall’allegato “l’Esordio di una Nazione”, riportiamo una parte significativa, un’autentica lezione di storia e di sintesi dell’indimenticabile giornalista e letterato toscano nato nel 1909 e morto nel 2001. L’Italia, unificata sotto Vittorio Emanuele, contava, nel 1861, circa 22 milioni di abitanti, i quali, per la prima volta, dopo una quindicina di secoli, si accingevano a coabitare sotto lo stesso tetto e la medesima legge. Circa il 70% di essi viveva di agricoltura. Nella pianura padana aveva preso avvio un capitalismo agrario molto avanzato. Nel Sud permanevano i violenti contrasti tipici del sottosviluppo. Accanto ai latifondi c’era una piccola proprietà sbriciolata in minifondi, per nulla sufficienti per i più elementari bisogni. L’Italia anche come Paese agricolo, era molto povero, e lo si vedeva dalle diete. In molte zone il pane era un lusso domenicale; sulla mensa del contadino settentrionale la carne non compariva più di una volta al mese, mentre su quella del meridionale, meno di una volta l’anno. Ma le cose andavano peggio nel campo dell’industria, che contribuiva con uno scarso 20% al reddito nazionale. Il suo pilastro era la seta greggia, lavorata quasi esclusivamente in Piemonte e Lombardia, e questo spiega come mai lo sviluppo industriale avvenne proprio in queste regioni. Insieme con le filande, contribuì all’industrializzazione la meccanica, alla quale fece seguito la ferroviaria. In un’Italia povera di strade la ferrovia apparve come una grande conquista, la più importante e rivoluzionaria di quelle che oggi si chiamano le “infrastrutture di base”. Il primo treno era comparso a Napoli, che ancora ne porta il vanto (la Napoli-Portici -1839). In realtà era stato il balocco di Re Ferdinando per fare il giro del Vomero, e alla vigilia dell’Unità, non aveva a disposizione che 100 chilometri di binari. Il Piemonte, invece, nel frattempo ne aveva costruiti 900; il Lombardo-Veneto 500 ; la Toscana 250 e nel suo complesso la rete nazionale superava i duemila. Come quello ferroviario, anche lo sviluppo della flotta mercantile era molto promettente. Per tonnellaggio , al momento dell’Unità, il nostro Paese era al terzo posto in Europa, dopo Inghilterra e Francia. Ma le nostre navi erano quasi tutte a vela, mentre le flotte concorrenti erano quasi tutte a vapore. A questa debolezza economica, che faceva dell’Italia la frangia agricola e sottosviluppata di una Europa industriale, si aggiungeva il dissesto finanziario. Lo Stato doveva ora accollarsi gli enormi debiti (contratti dal Piemonte per le guerre di liberazione) che rappresentavano quasi il doppio del reddito nazionale. E in Italia, fra le altre cose, mancavano anche i capitali. Il denaro scarseggiava al punto tale che in molte zone del Sud non lo conoscevano nemmeno. Salvo che per il Piemonte, era diffusa la diffidenza per la cartamoneta, subito convertita in metallo che veniva tesaurizzato dentro il materasso. Se qualcosa si mosse in campo creditizio fu più dal basso che dall’alto. Le grandi banche dettero ben pochi incoraggiamenti all’industria. Ne dettero molti di più le Casse di Risparmio, diffuse nel Centro-Nord, dove la gente cominciava a divezzarsi dall’economia del salvadanaio. Questo rappresentava un notevole progresso, ma contribuiva ad aggravare la jattura che ancora ci perseguita: il divario fra Nord e Sud. I mancati investimenti e la soppressione delle barriere doganali tra Stato e Stato, furono le cause di una crisi che contribuì ad aggravare il ritardo del Sud. Quella più importante era il fallimento della riforma agraria tentata tra il Sette e l’Ottocento. Pur con tutte le ingiustizie il latifondo poteva servire all’accumulo di capitale e al suo investimento in migliorie agricole. Ma il terriero del Sud si era ben guardato da queste operazioni: esso viveva di terra, ma non sulla terra, praticando una agricoltura da rapina. Da questa classe dirigente provenivano i “moderati” che avevano assecondato l’azione di Cavour. Quanto alla Scuola, da un’inchiesta risultò che nel 1861 gli Italiani analfabeti erano 80 su 100. Ma mentre nel Piemonte , Lombardia e Liguria questa percentuale scendeva al 50, nel Sud toccava il 90. Il vero puntello del vecchio regime era stata l’ignoranza. Principi e Preti l’avevano coltivata con somma cura, ben sapendo che solo su di essa potevano reggersi. La politica scolastica resterà una delle maggiori inadempienze dei Governi post-risogimentali, quella di cui oggi la popolazione italiana continua a pagare le conseguenze. Però le responsabilità vanno, ovviamente, giudicate nel loro contesto. Poche classi dirigenti hanno dovuto affrontare, con mezzi così scarsi, problemi così ardui. La frase di D’Azeglio – l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani – rispondeva al vero. Fare gli italiani doveva rivelarsi impresa molto più difficile che fare l’Italia. Cavour si preparava ad affrontare gli immensi problemi dell’unificazione, quando fu colto dal male, probabilmente un attacco di malaria, degenerata per errore di cure. Visto che le condizioni peggioravano, il 4 maggio la nipote, che l’assisteva, gli chiese se voleva il confessore. Cavour comprese e annuì. L’indomani venne il Re. Prendendogli la mano, Cavour farfugliò: “Ho molte cose da comunicare a Vostra Maestà, ma sono troppo ammalato….Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo assoluto.Tutti sono buoni a governare con lo stato di assedio…. Garibaldi è un galantuomo e io non gli voglio alcun male. Egli vuole andare a Roma e a Venezia, e anch’io: nessuno ne ha più fretta di noi. Quanto all’Istria e al Tirolo, è un’altra cosa. Sarà il lavoro di un’altra generazione. Noi abbiam fatto abbastanza, noialtri: abbiam fatto l’Italia; sì, l’Italia, e la cosa va….”. Quando entrò il confessore con l’olio santo, gli disse: “Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato! “ e furono le sue ultime parole. Aveva cinquantun anni. ”Se morissi domani, il mio successore è designato”, aveva detto Cavour, pochi mesi prima di chiudere gli occhi, alludendo a Bettino Ricasoli. Fra i due, i rapporti non erano sempre stati idilliaci. Ma anche nei momenti di tempesta Cavour riconosceva che, come statura morale, Ricasoli sopravanzava di parecchie spanne qualsiasi altro uomo politico.
Francesco Mulè

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